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Dal muratore al magazziniere, i dieci lavori più pericolosi

Tre morti bianche al giorno. Settori a rischio: edilizia, autotrasporto, fabbriche e agricoltura. A gennaio salgono del 14,8% le malattie professionali

FONTE: http://www.lastampa.it

«La cava di marmo qualcosa vuole indietro». Stefano Mazzini ha 54 anni, fa il cavatore da 38. Quando racconta così, che la cava qualcosa indietro la vuole, parla di vite umane. C’è anche fatalismo, nel lavoro di chi estrae dal ventre della montagna il marmo e sa che il pericolo incombe, in ogni momento. Può finire malissimo. Con la morte. Oppure penzolando nel vuoto appeso a un’imbragatura, com’è successo a Giuseppe Alberti il 14 aprile 2016 qui a Carrara, sopravvissuto quasi per miracolo mentre altri due compagni perdevano la vita.  

Se la vita nella cava può essere intesa come emblematica dei pericoli sul lavoro, la panoramica nazionale che riguarda tutte le attività continua ad offrire numeri allarmanti: tre morti bianche al giorno in media. A gennaio 2018 salgono del 14,8 per cento le malattie professionali. Nel 2017 sono state presentate all’Inail, l’Istituto nazionale assicurazione Infortuni sul lavoro, 635.433 denunce di infortuni. Le vittime sono state 1.029, con un incremento di 11 casi, l’1,1 per cento, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Più morti, perché sono cresciuti gli incidenti multipli, quelli costati la vita a più lavoratori. Settori a rischio: l’edilizia, l’autotrasporto, le fabbriche. Anche l’agricoltura, che continua a essere la bestia nera delle classifiche.  
Ci sono più vittime negli incidenti con i trattori agricoli nei campi che sull’intera rete autostradale. Delle tragedie, di solito, si parla per qualche giorno. Poi il ricordo viene assorbito nell’interminabile sequenza degli articoli di cronaca, cristallizzato negli archivi. Poche, pochissime, le tracce dei racconti di chi, in prima persona, vive ogni giorno la realtà dei mestieri e delle professioni più critiche. Perché aumentano le vittime? Alle cave di Carrara Stefano Mazzini tenta una prima spiegazione: «Perché le persone sono diminuite e i ritmi aumentati». Qualche esempio? «Per piazzare i macchinari un tempo venivano utilizzate quattro persone, oggi due. Sulla “piazza”, il piazzale di lavorazione, dove vengono preparati e sgrossati i blocchi abbattuti, la selezione dev’essere sempre più veloce, incalzante, un carico via l’altro». Nel distretto, nel 2015 e nel 2016 ci sono stati sette incidenti mortali. Tutti diversi tra di loro. Un cavatore è morto perché la perlina di diamante artificiale con cui è rivestito il filo che taglia il marmo si è staccata e come un proiettile l’ha colpito al volto. Uno è precipitato per otto metri, due perché la montagna si è frantumata ed è franata. Altri due sono rimasti schiacciati mentre spostavano delle lastre che si sono abbattute, uno è stato travolto da una “struscia”, come si chiama qui nella cava, un blocco che si è staccato dal crinale. 

I rischi della strada

Dalle cave alle autostrade. Giulio Freccero ci lavora da 38 anni: «Ci si abitua a tutto e questo è il pericolo più grande. Però poi un Tir ti sibila passandoti a 90 chilometri all’ora vicino al c... e all’improvviso ti ricordi cosa stai facendo, il rischio che corri, in definitiva, chi sei». Freccero iniziò negli anni Ottanta alla Scai, poi Italstrade. Ancora oggi è nella holding che ruota intorno al gruppo Autostrade. Dubbi non ne ha: «Oggi, sul fronte della sicurezza, va meglio di quarant’anni fa, ma con alcuni distinguo. Come il fatto di aver scaricato su imprese specializzate, altre, il pericolo dell’installazione dei cantieri: quelli che mettono i birilli con il camioncino e sventolano le bandiere. Poi si vedono comportamenti scriteriati». Il contratto è quello degli edili. «Ci sono quelli che costruiscono i palazzi e il cui maggior pericolo è sempre cader giù dalle impalcature. Poi noi, che costruiamo le autostrade, i viadotti, le terze corsie». A volte arriva l’esito tragico, la morte: «Uno dei miei più cari amici - racconta Freccero - è morto schiacciato dal suo furgone, che si è mosso mentre lui stava scendendo, contro il guard rail». Si lavora quasi sempre in presenza di traffico. Si lavora così sui tratti della società Autostrade e delle altre venti concessionarie in Italia, da Nord a Sud. «Si lavora in condizioni di pericolo, con i mezzi che ti sfrecciano accanto senza quasi mai rispettare la velocità indicata dai cartelli. A volte le indicazioni, i segnali, le file di birilli non bastano».
Qualche esempio? «Un conto è essere impegnati sull’autostrada del Sole, o sull’A7 nel tratto tra Tortona e Milano: tutto dritto, con le corsie di emergenza, abbondanti spazi tutto intorno. Un conto è operare sulle autostrade della Liguria, per esempio. Hai un bel dire che i protocolli dicono come devi parcheggiare i mezzi sulla corsia di emergenza: tante volte non c’è. Percorsi infernali, si opera con il batticuore. Qualche volta si muore». Così com’è accaduto 26 marzo dell’anno passato, nello spaventoso incidente sull’A10 fra Albisola e Celle Ligure, in direzione di Genova. Il conducente di un camion ha perso il controllo del mezzo, si è adagiato su un fianco travolgendo un’auto finita in una scarpata e poi si è schiantato contro un cantiere, investendo 7 operai che erano al lavoro. Due le vittime. Poi c’è il lavoro in galleria: «Le regole dicono che devi indossare la cuffia, perché i macchinari sono rumorosi. Ma se la metti magari non senti il collega che ti urla di scappare. Allora cerchi sempre un compromesso, sperando che tutto vada bene». Magari, lavorando così, nasce anche un sussulto di responsabilità verso gli altri. Qualche settimana fa, passando davanti a un edificio in costruzione, Freccero ha richiamato due operai albanesi che si arrampicavano sui ponteggi senza protezioni: «Potevano ammazzarsi, mi sono fermato e gli ho detto: ragazzi, ma cosa state facendo?».Uno di loro poteva essere Ervin Balliu, che incontriamo davanti a un bar nella periferia di Tortona. Ha 31 anni, è regolare in Italia, ha una moglie e due figli. Edile anche lui, in un comparto che dal 2008 ha visto dimezzare i suoi lavoratori. 

Ritmi massacranti

Il lavoro inizia alle 7. Mazzini si alza alle sei meno un quarto, lavora fino alle 15.30, tre quarti d’ora dopo è di nuovo a casa. Cinque giorni su sette, ma c’è chi ne lavora anche sei. La qualità più importante per il cavatore? «Testa e gambe buone per scappare». C’è un’altra frase che riassume il rischio con cui convivere: «Il peso non dorme mai». Insiste Mazzini: «Se vieni qui la notte, sulla cava, il “peso” lo senti. Quando c’è silenzio, la montagna fa rumore, fa cric cric, scricchiolìi sinistri che rivelano come la montagna non sia mai ferma, immobile». La gravità lavora, sempre, trasformandola quasi in un organismo vivente che vibra e respira. I giovani, questo mestiere lo fanno malvolentieri. Sotto i 28 anni, nelle cave lavorano in 28, ma come impiegati: solo 7 cavatori, rivelano i dati della Fillea Cgil di Carrara. «È un lavoro faticoso e logorante. Quando sei a casa, a metà pomeriggio, non hai più voglia di uscire. Ti prepari qualcosa, ceni, guardi un po’ di tv, la maggior parte delle volte ti addormenti sul divano».

Le micro-imprese

Di più: oggi, in Italia, le ditte hanno una media di due dipendenti. È possibile, con numeri così piccoli, garantire che tutte le norme di sicurezza siano sempre rispettate? «Mi chiedi - sorride Ervin - se anche io mi arrampico senza protezioni? Sì spesso sì, anche se la raccomandazione è a parole di non farlo, di rispettare sempre tutte le regole». Perché il lavoro c’è, il comparto è in ripresa, «ma bisogna lavorare velocemente e se rispetti tutte le regole non ce la fai. Poi è la stessa persona che ti dice di rispettare le regole che ti rimprovera se ci metti troppo. E se segui tutto nei dettagli non ce la fai ad andare veloce». Anche l’esperienza gioca la sua parte: «Un collega si è infortunato smontando un ponteggio. È crollato tutto, lui non era imbracato, ha fatto un volo di cinque metri. Non aveva alcuna esperienza, ha estratto un cuneo nella successione sbagliata, è volato giù contro una macchina escavatrice. Purtroppo, bisogna saperli fare, certi interventi. Non ci si può improvvisare, ma la fame di lavoro fa entrare nei cantieri anche molte persone poco preparate».
Tra le professioni più pericolose, c’è quella dell’autotrasportatore. Soprattutto se, come Luciano Rossi, arrivato al nostro incontro al terminal di Milano, trasporta container ma soprattutto cisterne Adr, l’acronimo che si riferisce all’accordo europeo sui trasporti di merci pericolose. Quali? «Passiamo ai gas ai prodotti corrosivi a quelli tossici, acetone, basi di cianuro, le classi sono 9, si parte dagli esplosivi e si arriva ai vari prodotti a rischio».Per mettersi alla guida esperienza e perizia non bastano: «Ci vuole anche tanta testa, c’è una grande differenza psicologica da mettere in campo rispetto a un trasporto normale. Devi essere sempre consapevole di quello che fai, se hai sulle spalle 300 quintali di prodotti a base di cianuro, comprendi benissimo che se sbagli qualcosa la gente muore». Com’è successo il 2 gennaio sull’A21 tra Brescia e Manerbio, quando un’autocisterna di gasolio è e un tir carico di cereali sono arrivati alla collisione. Un Acheronte di fuoco sull’asfalto, sei le vittime tra cui due bambini nell’auto coinvolta. 
«Per i prodotti tossici - prosegue Rossi - dobbiamo utilizzare le maschere. Io trasporto spesso quelli che si chiamano tank container, contengono liquidi che viaggiano in cisterne a un comparto unico, rispetto alla benzina che ha quattro comparti. Questi container hanno un baricentro moto alto, in molte circostanze come le rotonde devi stare molto attento, percorrerla a 30 all’ora se no il mezzo si cappotta». 

Pronti alle emergenze

La preparazione è accurata: «Facciamo la scuola e siamo abilitati con un patentino, poi c’è un esame per cui sei adibito al trasporti di merci pericolose. Ancora dopo, la nostra azienda ci prepara in maniera specifica. Luciano non è un novellino: «Sono una persona consapevole ed esperta, ho 58 anni e faccio questo lavoro da più di 33 anni, sono prossimo alla pensione. Questi viaggi non sono lunghissimi, Genova, Torino, Bologna, Treviso». Per due volte si è trovato, nel corso della sua carriera, in situazioni di difficoltà e di grave emergenza: «Quando devi far riferimento a tutto il tuo sangue freddo». La scena si è ripetuta due volte: un altro camion in emergenza, la fuoriuscita sulla strada di un prodotto infiammabile. «Subito cerchi di neutralizzare il prodotto. Può capitare l’incidente se hai una valvola che perde. In prima battuta devi intervenire tu, poi arriva il personale dell’azienda». 

L’intervento di emergenza: «Come prima azione, bisogna capire che cos’è il prodotto, mettersi una maschera, cercare di tamponare la perdita, isolare la zona con vari sistemi, nastri e birilli». Chi trasporta merci pericolose ha un suo kit d’emergenza: «Portiamo una serie di dotazioni a bordo, raccolte in una borsa: la maschera facciale e quella semifacciale, le tute antiacido, i paraocchi, le cinture, caschi, occhiali, visiere. Poi abbiamo i birilli e il nastro bianco e rosso per mettere in sicurezza la zona». Qual è il voto alle strade e alle autostrade italiane? «Assolutamente insicure, non sono tenute in buono stato di manutenzione. Io le percorro più volte al giorno: buche, irregolarità, limiti di velocità che non vengono rispettati anche dai miei colleghi. Poi uno si trova in difficoltà, gli mancano i freni...». Pochi i presidi di emergenza: «Mancano, come delle autostrade francesi quando ci sono grandi discese come quella della Turbie che porta a Nizza, delle vie di fuga che si concludono con buche piene di ghiaia, in caso di emergenza ti ci butti dentro. Da noi no, le nostre strade sono bruttissime». Il rischio, quello è sempre in agguato.

Marco Menduni

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